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12/03/2014

Il caso Cannabis

All'inizio dello scorso gennaio il Colorado ha legalizzato la marijuana. Il primo giorno le file davanti ai negozi autorizzati sono state lunghissime e l'incasso ha superato il milione di dollari. Per la Società italiana tossicodipendenze (Sitd), la notizia è stata l'occasione per discutere il potenziale impatto sociosanitario della scelta antiproibizionista, alla luce dello stato dell'arte della ricerca scientifica. La discussione è diventata ancora più attuale a febbraio, quando una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, la quale equiparava le cosiddette droghe leggere e pesanti, con arresti sino a venti anni per spaccio di cannabis. Il dibattito è stato aperto da Gaetano Deruvo, tesoriere della Sitd e responsabile di un servizio per le dipendenze nella provincia di Bari. Deruvo fa notare che generalmente la legalizzazione favorisce l'accesso alla sostanza e aumenta così il numero di consumatori. Ciò a sua volta tende ad accrescere l'incidenza di patologie psichiatriche correlate all'uso della cannabis, così come i danni clinici, sociali e quelli di ordine pubblico.

Piuttosto diversa la posizione di Gian Paolo Guelfi (presidente della Sitd e docente di clinica delle tossicodipendenze all’Università di Genova), che invita a riflettere sul fallimento delle politiche proibizioniste, sebbene aggiunga di non sottovalutare i rischi connessi con l'uso di cannabis, soprattutto nel caso degli adolescenti e delle persone "vulnerabili". Guelfi ritiene che il proibizionismo non ha funzionato a dispetto dei toni trionfalistici delle organizzazioni che lo sostengono. Non ha funzionato l'esaltazione dei rischi, che confonde tra rischi della sostanza e pericoli derivanti dalle modalità di uso delle sostanze, modalità spesso e volentieri determinate proprio dalle politiche antiproibizioniste. Non hanno funzionato le politiche di proibizione fondate sull'enfasi per risultati scientifici scelti e valutati sempre a senso unico e che però dimenticano, come sottolinea Laura Amato (membro del dipartimento di epidemiologia del Ssr del Lazio e managing editor del Cochrane Drugs and Alcohol Group), le evidenze sull'utilità e sull'efficacia della riduzione del danno. La riduzione del danno è una strategia operativa la quale accetta il fatto che molti soggetti non sono in grado o non intendono smettere di usare le sostanze. Per questo, piuttosto che sull'astinenza, sulla cura e sulla prevenzione, i programmi di riduzione del danno si focalizzano sui danni correlati al consumo, tentando di attenuarli.

Gaetano Di Chiara, ordinario di farmacologia a Cagliari e tra i più autorevoli studiosi al mondo dei meccanismi cerebrali alla base delle dipendenze, dubita che la decisione del Colorado sia animata dalla strategia della riduzione del danno o dalla lotta al narcotraffico. A suo avviso hanno avuto un ruolo cruciale tre fattori: la riduzione della percezione sociale della pericolosità della cannabis (a dispetto di quello che sappiamo la cannabis nell'opinione comune è diventata una droga leggera, così leggera da essere assimilabile quasi al tabacco); l'aumento della sua diffusione, che porta anche al mutamento della sua percezione sociale: "molto diffusa" è equivalente a "poco dannosa"; gli enormi interessi che ruotano intorno alla cannabis, che legalizzata diventa una fonte di guadagno per i privati e per gli stati non inferiore al tabacco: per vendite, introiti fiscali e per indotto del turismo da consumo, in analogia a quanto successo ad Amsterdam. Deruvo riporta la ricerca di base al centro del dibattito e ricorda un recente lavoro sperimentale sui ratti condotto a Cagliari da Cristina Cadoni e dallo stesso Di Chiara. La ricerca sembra dimostrare che sugli animali l'esposizione in adolescenza alla cannabis e ai suoi derivati produce, in età adulta e in individui geneticamente vulnerabili, un maggior effetto gratificante dell'eroina accompagnato da alterazioni della sfera emozionale in età adulta. I risultati sembrerebbero così avvalorare la cosiddetta "gateway hypothesis", l'ipotesi del passaggio, secondo cui l'uso della cannabis nei giovani avrebbe un effetto ponte verso l'uso di altre droghe come cocaina ed eroina.

Luigi Stella richiama invece l'attenzione sui dati desunti dalla sua esperienza di consulente peritale per le procure della Repubblica. Le analisi condotte negli ultimi vent'anni su richiesta dei pubblici ministeri dimostrano che sono enormemente aumentate le percentuali di delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc), il principio attivo della cannabis. Dalla metà degli anni novanta, il Thc per la marijuana è passato dallo 0,3-0,8 per cento all'1,8-3,1 per cento; per l'hashish dall’1,3-3,2 per cento al 5,4-8,5 per cento. L'incremento della concentrazione del principio attivo è quindi straordinaria e questo comporta effetti e anche rischi che non si possono paragonare a quelli della cannabis venduta negli scorsi anni.

Secondo Stella, un'altra cosa che va chiarita una volta per tutte è la terminologia utilizzata. Distinguere tra droghe leggere e droghe pesanti non ha nessun senso. Purtroppo, questi termini utilizzati dai media hanno finito per colonizzare anche il settore della clinica delle dipendenze. Molto spesso anche gli addetti ai lavori utilizzano questi impropri aggettivi. Ma è chiaro che non esiste una reale base scientifica per tale differenziazione. Essa nasce da un banale equivoco linguistico. I termini soft (leggero) e hard (pesante) relativi alle droghe hanno tratto origine dai luoghi dove le sostanze venivano consumate. Soft era relativo al campus universitario, luogo "leggero", dove si consumava hashish ma soprattutto marijuana, comunque cannabis; mentre hard era riferito al Bronx o a Harlem, luoghi "pesanti", dove si consumava eroina e cocaina.

Nell'opinione di Di Chiara, la questione della legalizzazione della cannabis andrebbe affrontata tenendo come riferimento principale le evidenze delle ricerche sperimentali e cliniche. A questo proposito egli prende spunto da un'intervista a Gianluigi Gessa uscita il 10 gennaio scorso sul "Corriere della Sera". Gessa è professore emerito di farmacologia a Cagliari e fondatore della scuola di neuroscienze della locale università, tra le più quotate a livello internazionale, e della Sitd. Parlando degli effetti della cannabis e dei rischi correlati al suo uso, Gessa sottolineava che la cannabis è pericolosa per gli adolescenti ma non per gli adulti. Di Chiara rammenta un altro rischio dell'uso della cannabis negli adolescenti. Questa sostanza sembra in grado di far evolvere una predisposizione alla schizofrenia, che potrebbe solo rimanere tale, in una condizione psicotica clinicamente conclamata. Questi pericoli non sono poca cosa, ma secondo taluni, sostiene Di Chiara, il fatto che non colpiscano gli adulti farebbe della cannabis una droga tutto sommato benigna. Secondo Di Chiara, tale messaggio sarebbe fuorviante e contradditorio per due motivi. Innanzi tutto perché il consumo di cannabis comincia ed è più frequente nell'adolescenza e non nell'età adulta, nella quale precipita a livelli molto bassi rispetto a quelli iniziali. Per quali persone dunque, si domanda Di Chiara, dovremmo legalizzare la cannabis, per quei pochi irriducibili adulti che ancora continuano a fumarla? In secondo luogo, continua Di Chiara, l'aumentata disponibilità di cannabis per gli adulti avrà come conseguenza inevitabile un consumo accresciuto anche in quella fascia di età che è più a rischio in quanto consumatrice-tipo di cannabis, cioè gli adolescenti. Come per tutti i disturbi, ricorda Di Chiara, anche la dipendenza è dovuta all'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali, e tra questi ultimi c'è appunto la disponibilità di droga. E a suo parere non avremmo così tanti alcolisti o tabagisti se l'alcol e il tabacco non fossero legali. La nostra società versa già il suo pegno in vite umane, cure mediche, spesa sanitaria per aver accettato queste due droghe, l'alcol e il tabacco: non abbiamo alcun bisogno di una terza. Prima che fosse proibita, rileva Gessa, meno dell'uno per cento degli americani aveva provato la marijuana, oggi sono più del 50 per cento i giovani dai 12 ai 35 anni che l'hanno usata almeno una volta nella vita: un aumento del 5.000 per cento! Naturalmente la proibizione non è la causa della diffusione dell'uso della droga, ma la diffusione è la prova che la legge che doveva cancellare l'uso della cannabis ha fallito. Si potrebbe obiettare che, pur non avendone eliminato o ridotto l'uso, la proibizione ha mantenuto la diffusione della marijuana a un livello inferiore a quello che altrimenti si sarebbe verificato senza la proibizione. Mentre una verifica sperimentale di questa possibilità è praticamente impossibile, la risposta a questo quesito può venire dal confronto della diffusione della droga tra i paesi con severe sanzioni e quelli nei quali l'uso della marijuana è decriminalizzato o legalizzato.

Se i successi delle sanzioni sono limitati, quali sono i danni prodotti dalla criminalizzazione della marijuana?, si domanda Gianluigi Gessa. A suo parere, in Italia essa ha contribuito significativamente al sovraffollamento delle carceri. Inoltre, secondo Gessa, coloro i quali finiscono in carcere per possesso o piccolo traffico di droga ricevono un danno alla salute psicofisica di gran lunga più grave di qualsiasi effetto tossico della cannabis o delle altre droghe. Ma la proibizione causa danni anche al resto della società, continua Gessa. Un enorme settore economico viene lasciato nelle mani di criminali che non pagano le tasse. Inoltre la proibizione comporta alti costi della macchina repressiva ed esenta il mercato della cannabis dalle regole che la società impone alla produzione e vendita delle droghe legali. I produttori e venditori di bevande alcoliche devono possedere una licenza che impone, pena la sua revoca, l'indicazione della qualità del prodotto, il contenuto alcolico, i tempi e i modi di vendita, la localizzazione dell'esercizio. I venditori illegali non chiedono ai minori la carta d'identità, e non garantiscono la qualità della droga. Infine, conclude Gessa, la popolazione più crudelmente colpita dalla proibizione sono i malati che potrebbero giovarsi di una sostanza, appunto la cannabis, assai efficace per la nausea, il vomito, l'anoressia, il dolore neuropatico, la spasticità, il glaucoma, e altre affezioni e sintomi. Oggi sono disponibili farmaci a base di cannabinoidi sintetici o naturali per uso medico. Ma la procedura per ottenerli è lunga e difficile, il costo del farmaco è esageratamente alto e la sua efficacia non è superiore a quella della marijuana.

In sintesi, la prospettiva biomedica e clinica sulle dipendenze e sull'uso di sostanze psicoattive palesa soltanto alcuni dei piani su cui si realizzano gli effetti delle sostanze. Questi piani non si esauriscono nelle dimensioni molecolari o fisiologiche o ancora psicologiche, ma arrivano al livello sociale, sanitario, economico e politico. E sono piani mutualmente interconnessi: cause ed effetti vi agiscono in modo circolare e l'uomo e le sostanze li attraversano e li abitano tutti. Ogni singola disciplina scientifica si cimenta con la descrizione di un piano. Non può pretendere una speciale priorità, deve piuttosto cercare contatti, dialogo e integrazione con tutte le altre. Solo in questo modo si può sperare di affrontare con efficacia maggiore la questione delle droghe, sino a oggi (considerati i risultati) fronteggiata in modo assai deludente.

(di Stefano Canali e Chiara Lalli per L'Indice dei Libri del Mese)

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