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25/03/2017

La mia droga si chiama smartphone

Si può sopravvivere ai nostri tempi senza uno smartphone? La riflessione si applica soprattutto ai giovani, i cosiddetti millennials, ma non risparmia i più grandi. Non mancano sul web testimonianze riportate a vario titolo su esperimenti di vite vissute senza smartphone. Il diario del viaggiatore a ritroso nella tecnologia si compone generalmente di un decalogo puntato: 10 motivi per rinunciare allo smartphone, 10 giorni senza cellulare. La volontà di “liberarsi” della dipendenza equivale spesso a una sorta di misurazione della propria assuefazione, e qualche volta a una vera e propria scelta di vita. Un po’ come smettere di fumare. Tra gli effetti benefici più ricorrenti si annovera senz'altro la ritrovata percezione del proprio tempo libero, e la riscoperta di una certa “andatura umana”. Fare un passo indietro, rallentare, fermarsi se necessario per guardarsi dall'esterno, per acquisire coscienza rispetto ai confini morbidi tra utilità e assuefazione, tra piacere e ossessione. Senza che se ne acquisisca una reale consapevolezza infatti, l’abitudine a convivere con il proprio smartphone influisce notevolmente sulla gestualità e la personalità di un individuo, creando automatismi involontari: dal gesto reiterato teso a controllare il telefono nella tasca del cappotto, alla smania di fotografare, comunicare, e condividere nell'istantaneità. In termini di dipendenza sarebbe forse necessario operare una differenza tra lo smartphone come strumento generico e lo stesso come medium privilegiato per i social network. Tra dei giovani liceali che dichiarano di vivere senza smartphone, quasi nessuno sembra estendere la privazione ai più comuni canali social, ammettendo di accedervi regolarmente tramite computer. La deduzione che se ne trae è che il disagio, anche tra un piccolo numero di adolescenti, sembra risiedere nella reperibilità imposta, nella costante richiesta di “essere connessi”. Il problema, insomma, sorge laddove non si è più liberi di scegliere quando e come esserci, anche virtualmente. I più romantici rivendicano il diritto alla propria solitudine, gli avventurieri all'imprevedibilità e all'inconveniente: riprendiamoci il diritto di perderci e sbagliare strada, di arrivare in ritardo senza essere inondati di notifiche, di annoiarci alle poste o mentre aspettiamo il cappuccino – sembra reclamare qualcuno. A questo proposito è interessante notare come la maggior parte dei pionieri in controtendenza riporti tra le proprie conquiste una sorta di rieducazione alla puntualità: persino i ritardatari cronici sfiorano l’ora esatta quando non possono giustificare la propria assenza – “essere in orario resta meno stressante che essere sempre reperibili”. Scegliere di vivere senza telefono non equivale ad essere anti tecnologici, così come un certo atteggiamento rétro non corrisponde necessariamente a una volontà di isolamento. Abbiamo a che fare con il tempo, con la distanza: possiamo condire la giornata con le giuste proporzioni, il telefonino diventa il moderatore soggettivo della separazione. Tanto per sciorinare un po’ di dati impressionanti, secondo uno studio del CREDOC del 2016, in Francia, su un campione di 2.213 adolescenti tra i 12 e i 17 anni, il 93% ha uno smartphone e ne fa regolare utilizzo. Tra i 18 e i 24 anni la percentuale è del 100%. Secondo una ricerca commissionata da Nokia invece, una persona controlla in media il proprio smartphone 150 volte ogni sedici ore, circa una volta ogni sei minuti e mezzo. I nostri anni sono stati definiti liquidi, la nostra generazione quella “della testa bassa”. L’assioma droghe – alcol – tecnologia come fattori di dipendenza è cosa pressoché riconosciuta, co-agenti le tariffe agevolate e il potenziamento delle rete (il cellulare prende persino in metro!). Si alimentano gli studi che dimostrano quanto i nuovi media e le nuove tecnologie, sempre a portata di smartphone, creino una dipendenza pari a quella di alcune sostanze “anestetiche”. Ciò nonostante, non vi è tal proposito una posizione unanime e ufficiale da parte della comunità medica internazionale. In Cina, invece, la dipendenza in rete ha un nome e un riconoscimento clinico: la wangyin, “l’eroina digitale”. A Pechino si contano circa 24 milioni di ragazzi “affetti da un disturbo da Internet”. Su 688 milioni di persone connesse a Internet, 620 si collegano via smartphone, per un totale medio di navigazione di circa quattro ore al giorno. I numeri fanno un certo effetto, così come la singolare iniziativa del medico cinese Tao Ran. Nel 2004 lo psichiatra e contestualmente colonnello dell’Esercito popolare di liberazione, ha avviato un programma di riabilitazione per giovani affetti da questa particolare sindrome nel suo centro per lo “sviluppo tecnologico dell’adolescente”di Daxing, nella periferia di Pechino. La struttura ha tutta l’aria di una base militare, e così il programma che vi si impartisce. I giovani internati hanno tra 18 e i 24 anni, principalmente maschi e spesso figli unici imposti dalla pianificazione familiare: il programma di “cura”, che va dai 3 agli 8 mesi, prevede esercitazioni fisiche e una tipica disciplina militare (con tanto di uniforme e alzabandiera) . A raccontarcelo è un documentario israeliano, Web Junkie frutto di quattro mesi di lavoro sul posto dei due registi Shos Shlam e Hila Medalia. Il video, realizzato per il New York Times, è parte di una produzione di filmmaker indipendenti presentati al Sundance Film Festival del 2014. Sulla scorta del Centro Daxing sono state aperte centinaia di altre scuole in Cina e Corea del Sud, e il primo negli Stati Uniti, Pennsylvania. Il Colonnello Tao Ran sostiene di aver guarito circa ottomila ragazzi, il 70 per cento di successo assicurato.